130 - IL LIBERO SCAMBIO
- libertus65
- 5 apr
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Da "Liberalismo", di Ludwig von Mises, 1927, pag.185-192
La teoria degli effetti del protezionismo e del libero scambio è il cardine dell'economia politica classica.
Ed è una teoria così limpida, plausibile e inconfutabile che gli avversari non sono mai stati capaci di addurre contro di essa un argomento qualsiasi che non abbia dovuto essere immediatamente respinto per manifesta mancanza di plausibilità e di senso logico.
Eppure oggi nel mondo non vediamo altro che protezionismi, e spesso addirittura veri e propri divieti di importazione.
Persino in Inghilterra, patria della politica libero scambista, oggi trionfa il protezionismo.
Giorno dopo giorno il principio dell'autarchia nazionale guadagna nuovi adepti.
Persino Stati con pochi milioni di abitanti come l'Ungheria e la Repubblica cecoslovacca tentano di rendersi indipendenti dalle importazioni estere con una politica di alti dazi protettivi e di divieti di importazione.
Negli Stati Uniti la politica del commercio estero si basa sull'idea di imporre a tutte le merci prodotte all'estero a costi inferiori un dazio d'importazione pari al differenziale di costo.
L'aspetto grottesco di un'idea del genere sta nel fatto che tutti gli stati pensano in tal modo di ridurre le importazioni ma di aumentare contemporaneamente le esportazioni.
Ma l'unico risultato di questa politica è stata la riduzione della divisione internazionale del lavoro e quindi l'abbassamento generalizzato della produttività e, se esso non emerge alla luce del sole, è per il semplice fatto che i progressi dell'economia capitalistica sono ancora abbastanza grandi da controbilanciarla.
Ma è chiaro che oggi tutti sarebbero più ricchi se, per effetto della politica protezionistica, la produzione non fosse artificiosamente spostata dalle aree dove le condizioni di produzione locali sono più favorevoli a quelle dove lo sono di meno.
In un regime di piena libertà di mercato l'allocazione del capitale e del lavoro avverrebbe Invece nelle aree dove si offrono le condizioni di produzione più favorevoli.
Nessuno utilizzerebbe quelle meno favorevoli finché vi fosse la possibilità di produrre altrove a condizioni più favorevoli.
E così, mano a mano che si perfezionano i mezzi di trasporto, migliora la tecnologia e si esplorano più attentamente nuovi paesi che si aprono al mercato, emerge la realtà di aree di produzione più favorevoli di quelle già sfruttate.
Ed è lì che si sposta la produzione.
Questa tendenza a trasferirsi dalle aree dove le condizioni di produzione sono meno vantaggiose a quelle dove lo sono di più è tipica del capitale e del lavoro.
Ma queste migrazioni di capitale e di lavoro presuppongono non solo una completa libertà di scambio ma anche un'assenza di barriere che impediscano la mobilità del capitale e del lavoro da un paese all'altro.
Questo presupposto non esisteva al tempo in cui fu elaborata la dottrina classica del libero scambio.
Tutta una serie di ostacoli si frapponevano allora alla mobilità non solo del capitale ma anche dei lavoratori.
I capitalisti evitavano di investire i loro capitali all'estero sia per la scarsa conoscenza delle situazioni locali sia per la generale incertezza giuridica e per altre ragioni analoghe.
Gli operai da parte loro non avevano la possibilità di lasciare il proprio paese per tutte le difficoltà di ordine giuridico, religioso e di altro genere che avrebbero incontrato nel nuovo paese, prima fra tutte quella dell'ignoranza della lingua.
La distinzione introdotta nella teoria economica tra commercio interno e commercio estero può trovare una sua giustificazione unicamente nella circostanza che il presupposto della perfetta mobilità del capitale e del lavoro esisteva per il mercato interno ma non per il mercato tra i vari Stati.
Il problema a cui la teoria classica doveva dare una risposta era il seguente: quali sono gli effetti del libero scambio Internazionale delle merci se la mobilità del lavoro e del capitale da un paese all'altro è ostacolata?
La risposta al quesito la diede la teoria ricardiana nei termini seguenti: i vari settori di produzione si distribuiscono tra i singoli paesi in maniera che ciascuno di essi si applica alle produzioni nelle quali sa di possedere una superiorità indiscussa sugli altri.
I mercantilisti avevano temuto che un paese che disponesse di condizioni di produzione meno favorevoli avrebbe importato più di quanto non esportasse, depauperando così le casse del tesoro.
Per contrastare efficacemente questa sciagurata eventualità essi chiedevano allora l'imposizione di dazi protettivi e divieti di importazione.
La dottrina classica ha mostrato l'infondatezza dei timori mercantilisti.
Con una dimostrazione brillante, perfetta, e inconfutabile - e che di fatto nessuno ha contestato - essa ha teorizzato che anche un paese che in ogni settore di produzione disponga di condizioni di produzione meno favorevoli degli altri, non deve affatto temere di esportare meno di quanto importi, giacché anche i paesi che dispongono di condizioni più favorevoli finiscono inevitabilmente per trovare vantaggioso importare dai Paesi con condizioni di produzione meno favorevoli quegli articoli nella cui produzione essi sarebbero magari superiori ma non quanto lo sono negli altri articoli nei quali hanno finito per specializzarsi.
All'uomo politico insomma la dottrina libero scambista classica dice quanto segue: esistono paesi dove le condizioni di produzione naturali sono più favorevoli, e altri dove lo sono di meno.
La divisione internazionale del lavoro fa sì che spontaneamente, e quindi anche senza l'intervento dei governi, ciascun paese, indipendentemente dalle sue condizioni di produzione, finisca per trovare la propria collocazione nella comunità internazionale del lavoro.
Certo, i paesi che risultano dotati di condizioni di produzione più favorevoli diventeranno più ricchi, gli altri più poveri; ma questa è una realtà che nessuna politica potrà cambiare, perché è una conseguenza inevitabile della diversità dei fattori naturali di produzione.
Questa era la situazione di fronte alla quale si trovò il vecchio liberalismo, e a essa rispose appunto con la dottrina classica del libero scambio.
Ma dai tempi di Ricardo la situazione mondiale è notevolmente cambiata, e quella di fronte alla quale si trovò la dottrina libero scambista negli ultimi 60 anni prima dello scoppio della guerra mondiale era completamente diversa da quella con la quale aveva dovuto misurarsi alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX.
Questo perché il secolo XIX nel frattempo aveva in parte rimosso quelle barriere che inizialmente si erano frapposte alla perfetta mobilità del capitale e del lavoro.
Rispetto ai tempi di Ricardo, investire capitali all'estero era diventato molto più facile.
La certezza del diritto era decisamente aumentata, la conoscenza dei paesi, degli usi e dei costumi stranieri si era allargata, e l'istituto della società per azioni aveva offerto la possibilità di ripartire tra una pluralità di soggetti e quindi ridurre il rischio di impresa in paesi lontani.
Sarebbe certamente esagerato dire che all'inizio del XX secolo la mobilità del capitale sul mercato internazionale fosse pari a quella esistente all'interno di ciascuno Stato.
Certamente le differenze erano ancora notevoli ed erano anche abbastanza note ma comunque non era più possibile partire dall'idea che il capitale si fermasse ai confini dello Stato.
Ancor meno ciò valeva per la forza lavoro.
Nella seconda metà del XIX secolo milioni di europei hanno lasciato il loro paese per trovare più opportune possibilità di guadagno nelle terre d'oltremare.
Una volta scomparsa la condizione di immobilità del capitale e del lavoro contro cui si poneva la teoria libero scambista classica, perdeva necessariamente valore anche la distinzione tra i diversi effetti del libero scambio sul mercato interno e su quello esterno.
Una volta che il capitale e il lavoro possono liberamente emigrare all'estero, viene meno la legittimità di quella distinzione e per il mercato esterno vale quanto si è detto per il mercato interno, e cioè che il libero scambio porta a sfruttare esclusivamente le condizioni di produzione più favorevoli e ad abbandonare quelle meno favorevoli.
Dai paesi che dispongono di minori opportunità produttive, il capitale e il lavoro si spostano in quelli dove esse sono maggiori, ovverosia in termini ancora più espliciti, il capitale ed il lavoro fuoriescono dai vecchi paesi europei densamente popolati e si riversano nei territori dell'America e dell'Australia che offrono condizioni di produzione migliori.
Storicamente, per i popoli europei che, oltre ai vecchi territori di insediamento europei, possedevano anche quelli di Oltremare, adatti all'insediamento degli Europei, ciò si tradusse in un semplice travaso di una parte della popolazione in quei territori.
Per l'Inghilterra per esempio, significò semplicemente, per una parte dei suoi figli, andarsi a stabilire in Canada, in Australia o in Sudafrica.
Gli emigrati che avevano lasciato l'Inghilterra potevano rimanere cittadini dello Stato inglese e continuare ad appartenere alla loro nazione anche dopo essersi stabiliti all'estero.
Diversa fu la situazione della Germania.
Il tedesco che emigrava giungeva in uno Stato straniero a tutti gli effetti, tra cittadini di una nazione straniera; egli diventava cittadino di uno Stato estero, e si poteva supporre che nel giro di una, due o al massimo tre generazioni, avrebbe perso anche l'identità etnica tedesca, assimilandosi a una nazione straniera.
La Germania quindi si trovò di fronte al dilemma di dover assistere passivamente o meno all'esodo di una parte del suo capitale e dei suoi figli verso terre straniere.
Non bisogna quindi fare l'errore di pensare che il problema politico commerciale di fronte al quale si trovarono l'Inghilterra e la Germania nella seconda metà del XIX secolo fosse identico.
Per l'Inghilterra si trattava semplicemente di accettare o meno che una parte dei suoi figli emigrasse verso i dominions, e non c'era alcun motivo di impedirlo.
Per la Germania invece il problema era quello di tollerare o meno l'emigrazione dei tedeschi verso le colonie britanniche, verso il sud America e altri paesi, dando per scontato che questi emigrati avrebbero rinunciato con l'andar del tempo alla loro cittadinanza e alla loro identità etnica, così come avevano già fatto nel passato centinaia di migliaia o addirittura milioni di tedeschi emigrati.
E poiché non aveva alcuna intenzione di tollerare un fatto del genere, il Reich tedesco, che pure negli anni Sessanta e Settanta si era gradualmente avvicinato al libero scambio, alla fine degli anni Settanta passò di nuovo al protezionismo per difendere l'agricoltura e l'industria tedesche dalla concorrenza straniera.
Al riparo dei dazi doganali, l'agricoltura tedesca riuscì in una certa misura a contenere la concorrenza dell'agricoltura est europea e transoceanica favorite da terreni migliori; l'industria tedesca da parte sua riuscì a formare una serie di cartelli che mantennero i prezzi al di sopra di quelli di mercato e le consentirono, con i profitti realizzati, di vendere all'estero ai prezzi del mercato mondiale e talvolta persino a prezzi inferiori.
Ma fu impossibile ottenere quel successo definitivo che la politica commerciale si riprometteva dal ritorno al protezionismo.
Quanto più in Germania aumentavano il costo della vita e i costi di produzione proprio per effetto dei dati protettivi, tanto più la situazione politico commerciale si aggravava.
È ben vero che la Germania ebbe la possibilità, nei primi decenni della nuova era politico commerciale, di avviare una poderosa espansione industriale.
Ma questa espansione ci sarebbe stata anche senza protezionismi, perché era prevalentemente l'effetto dell'introduzione di nuovi procedimenti nell'industria siderurgica e chimica che permisero a tutta l'industria tedesca di sfruttare meglio le grandi risorse naturali del suolo tedesco.
La situazione politica commerciale odierna è caratterizzata dal fatto che la politica antiliberale, che ha eliminato la libera circolazione dell'operaio sul mercato internazionale e ha sottoposto a restrizioni non indifferenti la mobilità del capitale, in una certa misura ha fatto cadere di nuovo quella differenza nei presupposti del mercato internazionale che esisteva tra l'inizio e la fine del XIX secolo.
Ancora una volta viene ostacolata la mobilità del capitale e soprattutto della forza lavoro.
Un libero mercato delle merci, in queste condizioni, non scatenerebbe ondate migratorie ma indurrebbe ancora una volta le singole nazioni a specializzarsi nelle attività produttive per le quali esistono in casa loro condizioni oggettive relativamente migliori.
Ma qualunque sia la realtà dei presupposti del commercio internazionale, i dazi protettivi possono ottenere un solo risultato: che non si produce più dove le condizioni naturali e sociali sono migliori ma altrove, cioè dove le condizioni sono peggiori.
Le politiche protezioniste hanno dunque sempre per effetto la diminuzione del prodotto del lavoro umano.
Il libero scambista non intende affatto contestare che il male che i popoli vogliono combattere con la politica protezionista sia appunto un male.
Sostiene solamente che i mezzi proposti dagli imperialisti e dai protezionisti non sono adatti a rimuovere quel male, e perciò propone a sua volta un'altra via.
Il fatto che popoli come quello tedesco o quello italiano siano stati considerati le Cenerentole della spartizione del mondo, costringendo così i loro figli a emigrare verso paesi le cui condizioni politiche illiberali li obbligano alla denazionalizzazione è una di quelle condizioni dell'assetto attuale dei rapporti tra gli Stati che Il liberalismo vuole cambiare, perché solo così si possono creare i presupposti di una pace effettiva.
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